L’incertezza causata dalla crisi ha ridotto l’assenteismo sul lavoro. Sono aumentati però i presenzialisti, ossia coloro i quali vanno a lavorare ma spendono molto del loro tempo navigando in internet e nei social network.
Sicuramente questo non è un periodo favorevole per i pigri ed è giusto che i datori di lavoro limitino in qualche modo le fughe di tempo che diminuiscono la produttività. In molte compagnie si blocca l’accesso a determinati siti come Facebook, Skype e Twitter, per evitare che gli impiegati cadano in pericolose distrazioni.
Ma qual è il limite? Se una compagnia assume un investigatore privato per controllare i propri dipendenti, quando infrange il diritto alla privacy e quando invece agisce nel suo diritto alla tutela degli interessi aziendali?
Il datore di lavoro può bloccare l’accesso a determinati siti, ma non può istallare software che servono al monitoraggio di tutta la navigazione, perché violerebbe qui il diritto alla privacy del lavoratore.
L’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori stabilisce inoltre che non è possibile installare impianti audiovisivi per controllare a distanza il lavoratore. L’utilizzo di strumenti di controllo a distanza può avvenire se risponde a motivi di sicurezza e deve essere concordato con le organizzazioni sindacali dell’azienda e in assenza di questa con l’autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro dietro istanza del datore di lavoro.
Se il datore di lavoro viene a conoscenza del fatto che l’impiegato utilizza il computer a fini personali ha il diritto di sanzionare il lavoratore ma non può verificare il contenuto del materiale archiviato nel computer. Inoltre deve informare i dipendenti del fatto che verranno sottoposti ad un controllo.
In ogni caso, in sede giudiziaria i documenti o i fatti scoperti illecitamente non possono valere come elementi probatori.
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